Pubblicato da Redazione Lettere e Arti il 5 Settembre 2010 in Letteratura

Bacon e Redon

Scorrendo i sempre vigili aforismi di Ceronetti nel suo recente Insetti senza frontiere (Adelphi 2009), mi sono imbattuto nella sua lettura di due grandi artisti della pittura: Odilon Redon, significativa figura del Decadentismo francese, e Francis Bacon, inquietante interprete del malessere del ‘secolo breve’. Fedele all’appello alla «lucidità» dell’amico Cioran, del quale ha condiviso la severa e scomoda analisi del nonsenso quotidiano, Ceronetti incontra due artisti che ci sembra difficile accostare, non solo per la differente collocazione cronologica, ma anche, soprattutto, per il differente giudizio di valore espresso dal Filosofo Ignoto (così si definisce Ceronetti). Infatti, se a un più attento esame la distanza cronologica appare più sfumata – Redon nasce nel 1840 e muore nel 1916, agendo al tramonto di un’epoca ‘organica’ (l’800), mentre Bacon nasce nel 1909 e muore nel 1992 – il primo artista esce celebrato negli aforismi, il secondo no. Vediamo cosa scrive Ceronetti su Odilon Redon. La ricerca astrofisica ci presenta un orizzonte di morte dell’universo; la capsula spaziale Huygens ha esplorato Titano, la piccola Luna di Saturno, lasciandoci una immagine infernale («lugubri fiumi mortiferi di metano liquido in superficie, un saturnino gas di palude stigia», op. cit., p. 96), che conferma gli incubi della più inquietante letteratura fantascientifica. Eppure, prosegue Ceronetti, «da quella morte liquida in movimento ecco emergere in uno slancio d’idealità insopprimibile la pallida, indicibilmente dolce, infinitamente malinconica testa di clown sul suo stelo curvato, del ‘Fiore di palude’ di Redon» (op. cit., p. 97). Redon è poi ulteriormente celebrato tra gli esponenti di una «pittura come pensiero che non cessa di fluire, nei limiti della fragilità materiale», insieme a Velazquez, Giorgione, Bosch, Van Gogh, Sironi, Klee (op. cit., pp. 137-138). Diverso e senza appello il giudizio su Bacon. Pur senza citarlo, condanna in generale l’empietà nei confronti della figura umana perché «promuove, attiva, ufficializza ed estende il male. […] Disintegrare una faccia sulla tela è sempre una piccola e simbolicamente radicale Hiroshima» (op. cit., p. 54). Più avanti, rifacendosi alla categoria dei «discendenti degli Atlantidi degenerati», coniata dal veggente americano Edgar Cayce, Ceronetti ne offre un ampio spettro all’interno del secolo XX, e accanto ai truci Hitler, Stalin, Pol Pot, Bin Laden, colloca a sorpresa anche Francis Bacon, «tutti impegnati a distruggere l’Essenza umana, a sommergerla, come fu giustamente sommersa Atlantide» (op. cit., p. 66). Quanto di più lontano, dunque, dall’idealità di Redon. C’è però un punto di contatto che vorrei proporre come ipotesi di lavoro, offerto dal confronto tra «E ogni specie di bestie spaventose sorgono», illustrazione di Redon per la prima serie de La tentation de Saint-Antoine di Flaubert (1888) e i Tre studi per figure ai piedi di una Crocifissione di Bacon (1944). Il punto di contatto è l’orrore, fuori dallo spazio e dal tempo esterni alle immagini, fuori di ogni riferimento logico, fuori di ogni contestualizzazione: l’orrore come pura sensazione che irrompe dalle regioni ctonie dell’essere, o, come scrive Ceronetti, «gli abissi tenebrosi dell’essere» (Il fascino discreto dell’orrore, 1999). Entrambi cercano di cogliere «la tendenza metamorfica del reale, il momento in cui umano, animale e vegetale sfumano tra loro» (Ceronetti, op. cit., p. 218). L’alieno cangiante immortalato in una storica pellicola come Predator di John McTiernan (1987) ne potrebbe costituire un superbo esempio. Diverso, certo, l’iter esistenziale e artistico dei due pittori. Redon, dopo il decennio dei Noirs (il nero è il colore assoluto dei suoi carboncini che pullulano di un universo di animaluncoli, di infusori – con terminologia probabilmente ripresa da biologi e microscopisti del ’600, quali Leuwenhoek, Hooke e Malpighi, celebrati in filosofia dal cartesiano Malebranche – e di larve, un orrore confinato nell’«infinitamente piccolo», come scriveva l’amico Huysmans), approda positivamente alla luce, al colore, all’uscita dalle tenebre. Bacon, amatissimo da Gilles Deleuze, no. La luce e il colore sempre vivissimo accompagnano senza requie «l’infinita miseria del corpo umano, la sua ingiustificabile umiliazione di ogni momento, la sua dipendenza schiacciante dalle oscillazioni delle forze della morte» (Ceronetti, op. cit., p. 144).

Guido Galliano