Pubblicato da Andrea Sisti il 31 Ottobre 2011 in Letteratura

Esodo, profughi, esilio ed esuli

L’interesse per la storia dell’esodo delle popolazioni giuliano-dalmate non ha origine solo perché è tale, ma è nato e cresciuto in diverse persone come desiderio di conoscenza ed atto d’amore verso la storia della propria terra e dei propri familiari, che ne sono stati protagonisti, a Fiume e non solo, e prima e dopo i due conflitti mondiali del Novecento.

Nel  1947, la nonna di chi scrive, Antonia Duimovich, aveva ventuno anni ed il 3 di febbraio si imbarcava, a Pola (città dell’Istria, attuale Croazia, all’epoca italiana), con la propria famiglia, sul piroscafo “Toscana”, diretta a Venezia. L’ultima immagine della sua città era quella di una Pola  moribonda, in agonia sotto la neve, che si stava svuotando: una giovinezza e un mondo se ne stavano andando davanti agli occhi di chi partiva.

Il 10 febbraio 1947 l’Italia, appena uscita dal fascismo e dalla guerra civile, firmava a Parigi il trattato di pace definitivo con gli alleati, tracciando, così, i nuovi confini di uno Stato sconfitto, rinunciando a buona parte dei suoi territori nord-orientali. Cinquantasette anni dopo, il 10 febbraio viene celebrato come il “Giorno del Ricordo”: il ricordo dell’esodo degli italiani d’Istria, ma anche di coloro che morirono nelle foibe, trucidati dai partigiani comunisti di Tito.

La firma del Trattato di Parigi sancì, anche, l’inizio dell’esodo di migliaia di italiani, dopo l’occupazione militare jugoslava di Fiume, Zara e di gran parte dell’Istria: dalle 250 alle 350mila (la cifra, anche in questo caso, varia a seconda delle fonti), preferirono la fuga alla dominazione dei titini, i quali, peraltro, avevano instaurato un vero e proprio regime di terrore, per spingere gli italiani ad andarsene, attuando così una vera pulizia etnica non dissimile da quella che, cinquant’anni più tardi, avrebbe portato alla guerra nella ex Jugoslavia.

La maggior parte degli esuli, arrivati in Italia, furono distribuiti in oltre centonove campi profughi, mentre circa sessantamila si fermarono nella zona di Trieste; moltissimi aderirono al programma dell’International Refugee Organisation (I.R.O.), si rifugiarono all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, in Canada o Australia. Il 21 marzo 1947, il piroscafo Toscana fece l’ultimo suo viaggio, con il suo “pesante carico” di uomini, donne e ricordi, da Pola all’Italia.

La contesa dei territori di nord-est inizia, si sa, con la fine della Prima Guerra Mondiale, quando la  frontiera  tra  l’Italia  e  la (oggi ex) Jugoslavia,  viene stabilita sulla “linea Wilson” (la quale prende il nome, naturalmente, dal presidente americano): agli slavi viene assegnata solo una parte minore dell’Istria, mentre i centri più importanti passano sotto il tricolore. Cinquecentomila slavi diventano improvvisamente “italiani” senza volerlo, vedendo, non senza ragione, gli italiani come “occupanti”, che impongono la loro cultura e la loro lingua, opprimendo le popolazioni slave. Una “dominazione” che gli jugoslavi non dimenticheranno facilmente.

In seguito alla catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, Germania e Italia dovettero pagare il conto per la loro sconfitta. La neo costituita Repubblica Federativa Jugoslava del maresciallo Tito (Josep Broz), nata dalla caduta dei regni di Slovenia, Croazia, Serbia e Montenegro, rivendicò i territori passati all’Italia trent’anni prima.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, atti di barbarie vennero inflitti alla popolazione di etnia italiana, nelle zone dell’Istria e della Dalmazia, dando il via, lungo il confine orientale, alla balcanizzazione della Venezia Giulia. La pulizia etnica, basata sul terrore e la precarietà della vita, in poco tempo bonificò la zona dall’elemento italiano. In quel periodo circa 20.000 persone, tra uomini, donne e bambini (il numero esatto non è stato mai quantificato), vennero gettate nelle foibe o assassinate brutalmente. La maggior parte dei  loro corpi, giacciono ancora nelle profondità della terra carsica, mai più recuperati.

Nel maggio-giugno del 1945, quando i tedeschi vengono sconfitti, nei territori giuliani, arrivano i reparti jugoslavi, accolti dagli italiani come liberatori alla stregua di americani ed inglesi. Le intenzioni delle forze del maresciallo Tito erano ben diverse da quelle degli alleati; il loro scopo era riconquistare i territori che, alla fine della Grande Guerra, erano stati negati alla Jugoslavia. Così, a partire dal 1° maggio 1945, i Volontari italiani della libertà vengono disarmati, man mano che i partigiani sloveni avanzano in Venezia Giulia, disarmano e internano gli “avversari”, mandandone, poi, a morte migliaia nelle foibe. Gli “avversari” non sono solo i (pochi) repubblichini rimasti nella zona, ma sono, anche e soprattutto, civili inermi, donne, vecchi e bambini: tutti coloro che, secondo un’ordinanza del governo di Tito, si oppongono al passaggio dell’Istria alla Jugoslavia o rifiutano di dichiararsi slavi. Esattamente come durante il Ventennio, può bastare una denuncia anonima, magari di un vicino di casa invidioso, che voglia a acquisire rapidamente un alloggio, oppure di qualcuno che da anni covi una sua vendetta personale, per condannare a morte una persona. Ma tra le vittime si contano anche centinaia di persone uccise solo perché vengono identificate come simbolo del fascismo (come carabinieri, finanzieri, podestà) o della borghesia (maestre e levatrici).

Dopo il Trattato di Pace di Parigi (10 febbraio 1947), i confini dell’Italia furono ridisegnati e una parte consistente della Venezia Giulia, con Fiume e Dalmazia, passò alla Jugoslavia. In seguito al diktat imposto dai vincitori, alla popolazione, che su quelle terre era vissuta per vari secoli, venne imposto di scegliere se rimanere italiani o diventare slava. 350.000 tra istriani, fiumani e dalmati scelsero l’Italia e intrapresero la via dell’esilio, disperdendosi nei cinque continenti. Si può in sintesi affermare che ogni qualvolta negli italiani si fece strada la consapevolezza della definitività della dominazione jugoslava ciò fece scattare l’esodo sino allo svuotamento pressoché completo del territorio da parte delle comunità italiane. Ne  è anche la principale caratteristica per la sua natura di fenomeno di massa: tra il 1943 e la fine degli anni Cinquanta circa il 90% della popolazione italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia ha abbandonato le proprie terre d’origine. Questo è il dato più rilevante storicamente.

Il lessico utilizza vocaboli differenti per indicare il fenomeno dello spostamento della popolazione italiana dall’Istria e dalla Dalmazia. Il linguaggio ufficiale parla di “profughi” (termine che indica chi è costretto ad abbandonare il proprio paese in seguito a calamità naturali, a eventi militari, o a persecuzioni politiche). Nella memoria giuliano-dalmata prevale però la parola “esodo” (che indica l’emigrazione di un popolo o gruppo etnico; si pensi solo alla vicenda del popolo ebraico narrata nella Bibbia). La cronaca giornalistica invece usa alternativamente “profugo” o “esule” (vocabolo quest’ultimo che indica l’allontanamento temporaneo o permanente dalla patria, come pena inflitta ad un cittadino colpevole di reati politici o comuni, oppure come decisione adottata volontariamente per ragioni politiche o religiose). I nonni di molti ragazzi italiani, tra cui colei che scrive, hanno sempre pensato a se stessi come a profughi, perché costretti ad abbandonare la propria terra insieme a tanti altri italiani che tali avrebbero voluto rimanere. Un esodo, quello delle popolazioni dalmate e istriane, vissuto e sofferto sulla propria pelle, diverso in questo dagli esili letterari di Dante (Paradiso, XXV, 1-12), di Seneca prima di lui (Ad Marciam, Ad Polibium) o dell’eroe romantico tra Sette e Ottocento (da Goethe all’Ortis foscoliano alle sorelle Brontë).

Petra Di Laghi